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POLITICA 17-09-2021

Il ricatto fossile dietro gli aumenti dei prezzi dell'energia

In queste ultime settimane la notizia del rincaro dei prezzi di energia elettrica e gas naturale ha riempito di titoli i principali quotidiani e notiziari. La notizia è stata trattata da tutte le principali testate come la “spada di Damocle” che grava sulle famiglie italiane, causata dalla ripresa dell’industria a seguito della crisi pandemica e dalle normative ambientali che farebbero lievitare i costi di produzione.

La narrativa generalizzata vede l’Europa “matrigna” che tassa la CO2 emessa dai produttori di combustibili fossili facendo così lievitare il prezzo di produzione, mentre i produttori “vittime” in quanto costretti a riversare l’aumento sulla popolazione.

In tutto ciò il Governo nostrano si prepara a varare misure di urgenza per calmierare il prezzo del gas naturale che si troverebbero a pagare le famiglie italiane, “finanziando” però di fatto all’industria fossile le tasse versate, in un circolo vizioso che vede allontanare la transizione ecologica a favore di una mite attesa degli effetti dei cambiamenti climatici mantenendo inalterati gli interessi di pochi.

La tempesta perfetta
L’aumento dei costi energetici si prefigura come ingente, secondo le dichiarazioni dell’attuale Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, e potrebbe arrivare fino al 40%. L’aumento fa riferimento alla sola componente energia, a cui poi chiaramente vanno aggiunti tasse e oneri.

Le cause che hanno portato a questa situazione sono diverse e si sono verificate congiuntamente portando il mercato del gas naturale allo stato di crisi.
Dal lato della domanda, la ripresa economica conseguente al ristabilirsi delle condizioni a seguito della crisi pandemica globale ha portato a un aumento della domanda industriale soprattutto nel comparto della produzione di materie prime (particolarmente energivoro e che aveva rallentato la produzione durante la pandemia); l’industria ha così lentamente reagito all’aumento del prezzo delle materie prime aumentando la produzione e, di conseguenza, i consumi.

Allo stesso tempo l’avvicinarsi della stagione termica comporta la necessità di rifornire gli stoccaggi nazionali che in Europa secondo Il Sole 24 ore sono mediamente pieni al 69%, mentre per l’Italia il livello raggiunge l’83% che è comunque un valore di guardia se raffrontato al 95% raggiunto nello stesso periodo lo scorso anno. La scarsità delle riserve è stata influenzata anche dal perdurare della stagione termica 2020/2021 appena passata.

Oltre all’aumento di domanda relativo alla crescita economica ed al sopraggiungere della stagione fredda, si aggiungono fattori metereologici come la mancanza di vento che ha interessato il mare del nord e che ha profondamente aumentato la domanda di gas ed energia elettrica soprattutto da parte del Regno Unito.
Dal lato dell’offerta, i principali fornitori di gas naturale non sembrano in grado di poter sopperire all’aumento di domanda europea. Anche in questo caso le ragioni dietro alla carenza di offerta sono diverse. Anche se la recente costruzione (ultimata il 10 settembre) del Nord Stream 2, l’ulteriore gasdotto finanziato principalmente da Gazprom, viene presentata come soluzione al problema. 

Il nuovo gasdotto dovrebbe raddoppiare le forniture dal mar Baltico, secondo Alexey Miller Chairman of the Gazprom Management Committee. La realizzazione del gasdotto, tuttavia, non è stata accolta favorevolmente da tutti i paesi Ue, trovando una ferma opposizione anche dagli USA che temono i risvolti geopolitici di un aumento della dipendenza (già molto importante) della domanda europea di energia dalla Russia. Attualmente l’investimento miliardario sta avendo successo solo nel continuare a incatenare la domanda di energia dell’Unione Europea a una fonte che dovrebbe essere eliminata nei prossimi vent’anni e a un Paese in cui la definizione di sostenibilità ha ancora un significato quantomeno “fumoso”.

E fumoso è senz’altro uno dei motivi per cui Gazprom non ha potuto aumentare le forniture di gas naturale verso l’Europa: un incendio ha interessato l’impianto di produzione di Urengoy (nella Russia siberiana)  dal 5 al 6 agosto e non è ancora chiaro se l’impianto abbia ripreso la sua normale produttività. 

A peggiorare la situazione logistica, anche la produzione di gas naturale americana sta subendo contraccolpi a seguito delle tempeste tropicali (in particolare la tempesta tropicale Nicholas che ha causato il blocco delle esportazioni dallo stabilimento di Freeport in Texas) nel golfo del Messico che stanno limitando la possibilità di esportazione.

L’European Trading System
Facciamo ora un passo indietro e torniamo alla seconda causa dei rincari del prezzo dell’energia in Europa, quello della normativa ambientale che prevede la tassazione della CO2 emessa, cioè l’European Trading System.
Il sistema europeo per lo scambio delle emissioni, attivo dal 2005, è uno degli strumenti più efficaci che l’Europa ha adottato per tagliare le emissioni di gas clima alteranti.
Il sistema interessa la CO2 prodotta da imprese operanti in Unione europea nella produzione di energia elettrica e termica, da imprese di settori particolarmente energivori (raffinerie, cementifici, industrie siderurgiche, ecc.), e dalle compagnie aeree operanti in UE e negli altri Paesi aderenti.
Il sistema è molto semplice:

  • le imprese devono rispettare un target di emissioni di gas clima alteranti;
  • le imprese che riducono ulteriormente le emissioni ottengono dei titoli;
  • questi titoli possono essere scambiati con le imprese che non rispettano i limiti all’interno di un vero e proprio mercato. 

In questo modo si genera un meccanismo virtuoso per cui le imprese che investono sulla riduzione delle emissioni (efficienza energetica, energie rinnovabili, ecc.) hanno un effettivo vantaggio competitivo sulle imprese che invece non rispettano i limiti, e la transizione ecologica viene finanziata dalle imprese meno virtuose. Il sistema funziona e raggiunge risultati solo se le imprese che emettono CO2 hanno un reale svantaggio commerciale. In questo senso, ad esempio, un’impresa che distribuisce gas naturale dovrà compensare la vendita di un combustibile fossile effettuando investimenti green o dovrà aumentare il prezzo del gas naturale. I clienti saranno orientati a loro volta verso altre fonti di energia rinnovabile più competitive. 

Chi inquina dovrebbe pagare
Il prezzo che devono pagare le compagnie per poter emettere una tonnellata di CO2 in atmosfera sta aumentando e, come previsto da Euractiv, continuerà ad aumentare nei prossimi anni con la possibilità di arrivare a 90 €/tonnellata nel 2030.
Attualmente i prezzi hanno superato i 60 €/tonnellata di CO2 emessa, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del meccanismo del 2018 e come diretta conseguenza dell’innalzamento degli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni di almeno il 55% entro il 2030.
Sono i prezzi elevati del gas naturale ad aver influenzato gli aumenti del costo del carbonio e non viceversa. Come? L’aumento del prezzo del gas naturale causato dalle motivazioni sopra elencate ha nuovamente reso competitivo il carbone fossile per tutte quelle centrali che erano passate tra il 2019 e il 2020 al gas naturale. Con l’aumento della combustione del carbone anche la domanda di titoli è aumentata (a parità di energia il carbone emette più CO2) facendo lievitare il prezzo.
L’aumento del costo della CO2 emessa dipende quindi dalle attuali dinamiche di mercato dei combustibili fossili e dalle prospettive sfidanti di riduzione delle emissioni di gas clima alteranti.
Entrambe le cause dell’aumento sono da ricondurre alla dipendenza da fonti fossili che sono appunto “la fonte” del problema. Continuare a basare il sistema energetico su fonti di energia fossili che risentono di dinamiche non controllabili esporrà sempre più i consumatori italiani alle fluttuazioni inevitabili del mercato di un prodotto che non ha un futuro in un Europa che vuole giustamente estromettere i combustibili fossili.

L’Ue fa, lo Stato italiano disfa e il tempo sta per scadere
Il sistema dei crediti di carbonio ha il preciso obiettivo di rendere non competitivi i sistemi che utilizzano fonti fossili per avvantaggiare gli investimenti in fonti rinnovabili e per spingere le industrie alla ricerca di soluzioni innovative per l’abbattimento delle emissioni.
Tuttavia, a livello nazionale nel 2021 è già stato stanziato oltre un miliardo (luglio 2021), e altri 3 miliardi sono previsti entro ottobre per calmierare le oscillazioni del prezzo dei combustibili fossili. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, il Conto Termico, che è uno dei principali incentivi all’efficienza energetica, nel 2021 al 1° settembre ha impiegato fondi per 328 milioni (fonte GSE). Viene da chiedersi quali effetti avrebbero potuto avere questi 4 miliardi se investiti in efficienza energetica e promozione di fonti rinnovabili. Rimane la sensazione di un’ulteriore occasione persa con il tempo per agire che continua ad assottigliarsi. Mentre questo articolo viene scritto mancano 6 anni, 106 giorni e 3 ore alla scadenza per raggiungere la neutralità climatica; il tempo che resta deve essere utilizzato in azioni mirate a portare concretamente la società attuale ad abbandonare le fonti di energia fossile.
 

Diego Rossi, AIEL